La
giurisprudenza sul punto è rigorosa, richiedendo che
l’individuazione del soggetto passivo del reato di diffamazione a
mezzo stampa, in mancanza di indicazione specifica e nominativa
ovvero di riferimenti inequivoci a fatti e circostanze di notoria
conoscenza, attribuibili ad un determinato soggetto, deve essere
deducibile, in termini di affidabile certezza, dalla stessa
prospettazione oggettiva dell’offesa, quale si desume anche dal
contesto in cui è inserita (Sez. 5, sentenza n. 2135 del 07/12/1999
Rv. 215476; massime precedenti conformi: N. 6507 del 1978 Rv. 139108,
N. 8120 del 1992 Rv. 191312, N. 10307 del 1993 Rv. 195555, N. 18249
del 2008 Rv. 239831). Nei caso di specie risulta documentalmente e
non è contestato che il ricorrente non abbia menzionato
nell’intervista giornalistica il Comandante dei corpo della Polizia
Municipale di ….... e il responsabile dei servizio di
verbalizzazione del medesimo corpo di Polizia Municipale, tanto meno
ha individuato un qualche politico o funzionario comunale,
limitandosi a rilevare che l’elemento anomalo, costituito dal
numero dei ricorsi accolti per ritardi nella procedura di notifica
della contestazione o per difetto di controdeduzioni, pari a circa il
70%, non poteva essere casuale, facendo da ciò discendere che si
trattava di errori “voluti dall’alto”. L’accoglimento del 70%
dei ricorsi relativi alle sanzioni amministrative rappresentava, come
riconosciuto anche dal giudice di secondo grado, un dato
oggettivamente abnorme e non contestato dalle persone offese, che non
poteva essere attribuito al caso; pertanto, il ricorrente ne
individuava la ragione nell’insipienza di coloro che avevano la
responsabilità politica e amministrativa dei servizi comunali e che,
evidentemente, per lungo tempo non avevano adottato gli opportuni
accorgimenti organizzativi. La censura contenuta nell’articolo in
oggetto appare, sotto il profilo dell’individuazione dei
responsabili delle disfunzioni, assolutamente generica lontana dai
presupposti di “affidabile certezza” richiesti dalla
giurisprudenza, in quanto priva di indicazione nominativa, sia
riguardo ai singoli responsabili, sia agli enti o alle strutture
specificamente preposte, per il tramite dei rispettivi funzionari,
dirigenti o politici, all’istruzione e definizione delle pratiche
in oggetto.
domenica 21 dicembre 2014
sabato 6 dicembre 2014
LE PRESCRIZIONI MEDICHE DEVONO ESSERE CONSEGNATE IN BUSTA CHIUSA
Le precisazioni del Garante della Privacy riguardano la
riservatezza dei dati sensibili insistenti nelle eventuali diagnosi,
prescrizioni mediche , e qualsivoglia atto medico. Il
Garante, infatti, ha voluto meglio precisare, con missiva inviata
direttamente al Presidente della federazione Italiana dei medici
(Fimmg) , che le ricette, i referti medici e quant’ altro riguardi
le informazioni sanitarie del paziente, siano esse consegnate in farmacia, che nelle sale d’attesa degli studi medici,
devono giacere all'interno di una busta chiusa. All'interno di
una busta chiusa, il medico può inviare le ricette direttamente alla
farmacia, senza che vi sia la necessità di doverle consegnare
direttamente all’ interessato. La persona che ritira la
documentazione sanitaria, per conto dell’interessato,
deve essere comunque provvisto di delega.
mercoledì 3 dicembre 2014
CRISI NELLE FORZE DI POLIZIA
Tratto da www.adods.org
COSA ACCADE NELL'ARMA DEI CARABINIERI?

Un'altra tragedia fra le file dell’Arma dei carabinieri, che ha visto la morte di un altro dei suoi uomini, Luis Miguel Chiasso , presumibilmente suicidatosi il 25.11.2014. Intorno alla vicenda ci sono molte ombre ancora da dissipare. Ciò che duole e che ci ha colpito maggiormente sono i commenti che si leggono su alcuni siti, che propendono a ridicolizzare e considerare pazzo un ragazzo che ha affermato di lavorare per i servizi segreti. Egli denunciava, poco prima dell’infausto evento, nella sua pagina facebbok, la paura di essere ucciso. Prescindendo dalle possibili motivazioni, qualunque esse siano state, banalizzare e deridere un Carabiniere innanzi ad un così tragico evento, solo sulla base di ciò che può aver detto, acuisce il dolore dei genitori affranti dalla perdita del figlio. Una settimana prima, in Ancona, si uccise il M.llo Andrea Carnevalli, e non vorremmo addentrarci ad argomentare i suicidi nelle file dell'Arma ( caso strano tutti con problemi personali ) , poiché l'argomento meriterebbe un'analisi introspettiva più profonda. Riportiamo il post “CARABINIERI – COSA SI CELA DIETRO IL SUICIDIO?” a suo tempo pubblicato nella home page del sito.
Orbene, l'intento dei più di voler dare una valutazione su quanto detto dal giovane Carabiniere, appare difficile e non di semplice lettura, anche perchè, qualora vi fossero ragioni per ritenere veritiere le sue affermazioni “far parte dei servizi”, non sarebbero state certamente rese note. In un Italia ove per decenni si sono celati attentati e mascherate morti eccellenti , pensare che esista ancora qualcosa di inattuabile, appare anacronistico. La realtà a volte può superare l'immaginazione, e per chi non è avvezzo a determinati contesti, tutto può sembrare abnorme e impossibile. Sarebbe quindi il caso di non considerare pazza una persona che si suicida se non vi sono elementi certi per poterlo affermare. Sarebbe opportuno evitare di ricalcare questo argomento e considerare solo i semplici fatti, che dovrebbero essere valutati anche sulla base di quanto da lui dichiarato prima di compiere il disperato gesto. Ma la domanda che ci siamo sempre posti, a prescindere da questa specifica vicenda, è la seguente:”cosa succedde nell'Arma dei Carabinieri, ove esiste la più alta percentuale di suicidi fra le fila dei pubblici dipendenti?”
Orbene, l'intento dei più di voler dare una valutazione su quanto detto dal giovane Carabiniere, appare difficile e non di semplice lettura, anche perchè, qualora vi fossero ragioni per ritenere veritiere le sue affermazioni “far parte dei servizi”, non sarebbero state certamente rese note. In un Italia ove per decenni si sono celati attentati e mascherate morti eccellenti , pensare che esista ancora qualcosa di inattuabile, appare anacronistico. La realtà a volte può superare l'immaginazione, e per chi non è avvezzo a determinati contesti, tutto può sembrare abnorme e impossibile. Sarebbe quindi il caso di non considerare pazza una persona che si suicida se non vi sono elementi certi per poterlo affermare. Sarebbe opportuno evitare di ricalcare questo argomento e considerare solo i semplici fatti, che dovrebbero essere valutati anche sulla base di quanto da lui dichiarato prima di compiere il disperato gesto. Ma la domanda che ci siamo sempre posti, a prescindere da questa specifica vicenda, è la seguente:”cosa succedde nell'Arma dei Carabinieri, ove esiste la più alta percentuale di suicidi fra le fila dei pubblici dipendenti?”
CARABINIERI - COSA SI CELA DIETRO IL SUICIDIO?

Porto Viro, in provincia di Rovigo, un appuntato dei carabinieri uccide il Maresciallo e la consorte, in un impeto d'ira. Come sempre, senza ombra di dubbio, improvvisamente si sentirà dire che è una tragedia inspiegabile e, precisamente:”"Un attimo di follia, un gesto folle che non ha alcuna giustificazione", ha detto il tenente colonnello Enrico Mazzonetto, comandante provinciale di Rovigo facente funzioni, parlando dell'omicidio-suicidio avvenuto in caserma. "Resta una profonda amarezza - ha proseguito - e ora nei colleghi carabinieri delle vittime e in tutti c'é una priorità comune: stare vicino alle due famiglie e dare il massimo conforto e sostegno ai familiari". Ogni volta che succede una tragedia od un suicidio nelle file dell'Arma dei Carabinieri, il movente è sempre inspiegabile, oppure riconducibile a problemi personali e familiari che non attengono all'attività di servizio. Ma è possibile che Nell'Arma dei Carabinieri, vista la sequela dei suicidi occorsi negli anni, si debba ancora oscurare la realtà!? Prima di entrare nell'Arma viene effettuata una selezione fiscale e puntuale sotto tutti gli aspetti, financo psicologici , quindi, ricondurre il tutto a semplici gesti di follia, equivarrebbe a mascherare e minimizzare il problema reale . Spesso le lamentele esternate ai superiori su possibili situazioni di conflitto all'interno di una caserma, vengono minimizzate o non prese in seria considerazione, proprio perché potrebbe esporre il superiore in grado, a critiche e censure, ed è difficile nell'Arma dei Carabinieri anteporre le ragioni di un subalterno al comportamento, magari non corretto, del superiore. Insomma, è evidente che in seno alle istituzioni manca un organismo che vagli le segnalazioni dei militari e conduca una seria e doviziosa indagine al fine di valutare possibili abusi o depistaggi. Abbiamo verificato la percentuale di suicidi nell'Arma? In nessuna amministrazione dello Stato vi è una percentuale così alta. Ci sarà pur un motivo? O vogliamo ancora fare finta di niente?
Si auspica che, negli ambienti di lavoro di carattere militare e/o di Polizia, in un momento così difficile per tutta la società, ci possa essere finalmente quella trasparenza che in ogni dove si prospetta per tutte le amministrazioni dello Stato, oggettivamente subordinata ad una reverente applicazione del Diritto.
Che fare? E' necessario che si vada negli Stati Uniti e si impari da loro, che sono avanti anni luce nell'affrontare queste problematiche . Nelle polizie americane, infatti, esistono dei reparti interni deputati a "filtrare" dal punto di vista psicologico e funzionale (nel senso di operativo, attinente alle funzioni) le situazioni di frustrazione lavorativa, ed il senso di inutilità e oppressione psicologica e funzionale che inevitabilmente, in misura maggiore o minore, prima o poi attanaglia tutti gli operatori, portandoli o ad abusi di potere e corruzione o a manifestazioni di violenza autolesionistica . Per questo delicato compito vengono impiegate persone esperte nei servizi operativi e psicologicamente preparate . In Italia, invece, si continua a lavorare a compartimenti stagni: da una parte il settore operativo e dall'altra il servizio medico (cui , erroneamente, viene totalmente devoluta la risoluzione di queste complesse ed articolate problematiche, che non sono solo -e spesso affatto- mediche) . Forse è il caso che le forze di polizia italiane, inclusi i Carabinieri , si proiettino davvero verso il futuro, guardandosi allo specchio e trovando la forza di riorganizzare la propria funzione nella società, senza ridurre il "burn out" degli operatori ad un fatto esclusivamente medico. Sarebbe molto più utile riorganizzare le proprie risorse umane in funzione delle effettive capacità, facendo sì che ciascuno si senta funzionalmente gratificato dal compito che svolge, ed avverta il proprio lavoro come davvero utile e importante, dal più umile al più alto. Insomma, per dirla con l'eterno Fantozzi, nessuno dovrebbe sentirsi, nella Forze dell'Ordine, una "merdaccia" . In questo senso potrebbe essere quantomai utile una organizzazione operativa delle varie Forze sul modello anglosassone o germanico, in cui la pur necessaria piramide gerarchica è assai mitigata dallo stimolo alla crescita professionale che viene attribuito ai livelli inferiori della piramide, così che nessun livello di essa venga "sprecato". Ad esempio, non è raro, negli omologhi americani o tedeschi, assistere a lezioni di aggiornamento su determinati profili di lavoro che i migliori operatori del livelli inferiori svolgono a favore di quelli superiori.
In definitiva, probabilmente occorre una visione un pò più moderna dell' organizzazione della nostre Forze di Polizia (ma il discorso potrebbe ben riguardare anche le Forze Armate) , in cui tutti si sentano importanti e nessuno insostituibile, in cui le doti individuali siano messe a disposizione del team . E si finisca una volta per tutte con queste continue conferenze-stampa : si lavori di più per la sostanza e meno per la TV ed i giornali ! Si valorizzino a questo scopo gli uffici-stampa delle varie Forse di Polizia e si lavori con maggior riservatezza e sobietà.
Diversamente, si continuerà fatalisticamente a prendere atto dell'esplosione di aggressività degli operatori , verso se stessi o verso gli altri, con il rischio niente affatto remoto di emulazione in pejus . Chi ha gradi e responsabilità , li eserciti in modo maturo e costruttivo, e possibilmente senza paternalismi e retoriche che nella società moderna (e gi operatori delle varie Forze vivono appieno nell'oggi) sono inefficaci e controproducenti.
Si auspica che, negli ambienti di lavoro di carattere militare e/o di Polizia, in un momento così difficile per tutta la società, ci possa essere finalmente quella trasparenza che in ogni dove si prospetta per tutte le amministrazioni dello Stato, oggettivamente subordinata ad una reverente applicazione del Diritto.
Che fare? E' necessario che si vada negli Stati Uniti e si impari da loro, che sono avanti anni luce nell'affrontare queste problematiche . Nelle polizie americane, infatti, esistono dei reparti interni deputati a "filtrare" dal punto di vista psicologico e funzionale (nel senso di operativo, attinente alle funzioni) le situazioni di frustrazione lavorativa, ed il senso di inutilità e oppressione psicologica e funzionale che inevitabilmente, in misura maggiore o minore, prima o poi attanaglia tutti gli operatori, portandoli o ad abusi di potere e corruzione o a manifestazioni di violenza autolesionistica . Per questo delicato compito vengono impiegate persone esperte nei servizi operativi e psicologicamente preparate . In Italia, invece, si continua a lavorare a compartimenti stagni: da una parte il settore operativo e dall'altra il servizio medico (cui , erroneamente, viene totalmente devoluta la risoluzione di queste complesse ed articolate problematiche, che non sono solo -e spesso affatto- mediche) . Forse è il caso che le forze di polizia italiane, inclusi i Carabinieri , si proiettino davvero verso il futuro, guardandosi allo specchio e trovando la forza di riorganizzare la propria funzione nella società, senza ridurre il "burn out" degli operatori ad un fatto esclusivamente medico. Sarebbe molto più utile riorganizzare le proprie risorse umane in funzione delle effettive capacità, facendo sì che ciascuno si senta funzionalmente gratificato dal compito che svolge, ed avverta il proprio lavoro come davvero utile e importante, dal più umile al più alto. Insomma, per dirla con l'eterno Fantozzi, nessuno dovrebbe sentirsi, nella Forze dell'Ordine, una "merdaccia" . In questo senso potrebbe essere quantomai utile una organizzazione operativa delle varie Forze sul modello anglosassone o germanico, in cui la pur necessaria piramide gerarchica è assai mitigata dallo stimolo alla crescita professionale che viene attribuito ai livelli inferiori della piramide, così che nessun livello di essa venga "sprecato". Ad esempio, non è raro, negli omologhi americani o tedeschi, assistere a lezioni di aggiornamento su determinati profili di lavoro che i migliori operatori del livelli inferiori svolgono a favore di quelli superiori.
In definitiva, probabilmente occorre una visione un pò più moderna dell' organizzazione della nostre Forze di Polizia (ma il discorso potrebbe ben riguardare anche le Forze Armate) , in cui tutti si sentano importanti e nessuno insostituibile, in cui le doti individuali siano messe a disposizione del team . E si finisca una volta per tutte con queste continue conferenze-stampa : si lavori di più per la sostanza e meno per la TV ed i giornali ! Si valorizzino a questo scopo gli uffici-stampa delle varie Forse di Polizia e si lavori con maggior riservatezza e sobietà.
Diversamente, si continuerà fatalisticamente a prendere atto dell'esplosione di aggressività degli operatori , verso se stessi o verso gli altri, con il rischio niente affatto remoto di emulazione in pejus . Chi ha gradi e responsabilità , li eserciti in modo maturo e costruttivo, e possibilmente senza paternalismi e retoriche che nella società moderna (e gi operatori delle varie Forze vivono appieno nell'oggi) sono inefficaci e controproducenti.
sabato 22 novembre 2014
PORTO D'ARMI - IMMOTIVATO IL DINIEGO AD UN AGENTE DI POLIZIA
Avv.Francesco Pandolfi cassazionista (www.StudioCataldi.it)
Il Tar Umbria si distingue per il competente tecnicismo trasfuso nella sentenza n. 68/14 del 29.01.2014 in materia di rinnovo di porto d'armi e giudicato amministrativo.
Il Tribunale pone il principio in forza del quale il giudicato non restituisce all'Amministrazione una "facolta' di scelta" incondizionata, ma un potere-dovere di adottare un provvedimento di cura dell'interesse pubblico, che non contrasti o eluda il giudicato stesso;inoltre che pur dovendosi salvaguardare la sfera di autonomia e di responsabilita' dell'Amministrazione, grava su quest'ultima l'obbligo di soddisfare la pretesa del ricorrente vittorioso, nell'ottica di leale ed imparziale esercizio del munus publicum oltre che di buonafede e correttezza.
Espone l'odierno ricorrente, in qualita' di Sovrintendente di Polizia di Stato in servizio presso la Questura di T., di aver ottenuto sin dal 1xxx licenza di porto d'armi per difesa personale, pur essendo comunqueabilitato a portare l'arma d'ordinanza anche fuori servizio.
Con decreto prot. n. xxxx la Prefettura ha respinto l'istanza di rinnovo presentata dall'odierno istante, non ritenendo sussistente alcun pericolo attuale.
Il P. ha impugnato il suddetto decreto innanzi al Tar che con sentenza passata in giudicato, in accoglimento del ricorso, ha annullato il decreto e intimato all'Amministrazione di rivalutare l'istanza con la massima sollecitudine ed in conformita' ai criteri conformativi ivi stabiliti;in particolare, l'adito Tribunale ha evidenziato la manifesta illogicita' dell'operato dell'Amministrazione, risultando il ricorrente gia' autorizzato all'utilizzo dell'arma da fuoco in dotazione (pistola Be. cal 9 x 19) e limitando la possibilita' di difesa di un agente della Polizia di Stato.
Indichiarata esecuzione del giudicato, il Dirigente della Prefettura ha però nuovamente negato al ricorrente il rinnovo della licenza diporto di pistola per uso personale, diversa dall'arma di ordinanza,escludendo la sussistenza di rischi di incolumita' attuali tali da giustificare il rilascio della richiesta autorizzazione, stante il trasferimento del P ad incarichi prettamente amministrativi.
L'odierno istante impugna il suddetto provvedimento, deducendo le seguenti censure, cosi' riassumibili:
I.Violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 2, 3 e 10 - bis della L.241/90; elusione del giudicato, sviamento di potere: il provvedimento impugnato sarebbe elusivo del giudicato, non limitandosi la sentenza 259/2012 ad annullare il provvedimento per difetto di motivazione, ma sostanzialmente accertando la spettanza del bene della vita ovvero l'interesse del Pa.
apoter utilizzare anche arma diversa da quella d'ordinanza e maggiormente adatta alla difesa personale; in particolare, il giudicato avrebbe oramai definitivamente accertato l'attualita' dell'esposizione al pericolo, ragion per cui l'Amministrazione non avrebbe piu' alcuna discrezionalita' al riguardo, dovendo soltanto dare piena attuazione al decisum;
II.Violazione e falsa applicazione dell'art. 42 del TULPS in combinato disposto con l'art. 3 della L. 241/90 e s.m., del DM 371/94; eccesso di potere per difetto assoluto di motivazione e travisamento dei fatti e contraddittorieta': sarebbe del tutto illogico incorrelazione al lavoro svolto sino al 2009, ritenere non piu' sussistente l'attualita' del pericolo, in contraddizione con tutti i precedenti provvedimenti autorizzatori rilasciati dal 1992;l'utilizzo di una pistola diversa da quella gia' in dotazione sarebbe funzionale ad una migliore tutela sia per se' che per l'ordine pubblico;
III.Violazione e falsa applicazione dell'art. 73 RD 635/40; eccesso di potere per contraddittorieta' ed ingiustizia sotto altri profili:il ricorrente quale agente di pubblica sicurezza, non dovrebbe nemmeno essere autorizzato, ai sensi dell'art. 42 TULPS, all'utilizzodi arma diversa da quella in dotazione, al pari del resto ai magistrati ed ai vice prefetti.
Sie' costituito il Ministero dell'Interno, chiedendo il rigetto del gravame, evidenziando:
-la generalita' del divieto di porto d'armi, dovendosi limitare il rilascio per difesa personale ai soli casi di effettiva necessita';
-la necessita' di autorizzazione per i Sovrintendenti della Polizia di Stato all'uso di arma diversa da quella d'ordinanza, ai sensi dell'art. 73 del R.D. 635/1940;
-il venir meno, allo stato attuale, di qualsivoglia concreto rischio di esposizione a pericolo, non essendosi peraltro registrato alcun episodio di aggressione alla incolumita' personale del Pa., nemmeno in riferimento alla pregressa attivita' svolta;
-in materia di autorizzazione al rilascio del porto d'armi cosi' comein ipotesi di rinnovo, il Prefetto avrebbe ampia discrezionalita' enon sarebbe tenuto a motivare puntualmente l'eventuale diniego,secondo consolidata giurisprudenza.
Alla camera di consiglio del 2xxxx, con ordinanza e' stata accolta l'istanza di sospensione dell'efficacia del provvedimento impugnato,attesa pur ad un sommario esame tipico della fase cautelare, la sostanziale violazione dei criteri di cui alla sentenza n. 259/2012,in uno con la intrinseca irragionevolezza, stante la legittimazione del ricorrente all'utilizzo permanente della pistola d'ordinanza anche al di fuori del servizio prestato,unitamente alla "verosimile permanenza di una situazione di pericolo attuale tale da legittimare il porto d'armi per uso personale".
Le parti hanno svolto difese in vista della pubblica udienza del 19 dicembre 2013, nella quale la causa e' passata in decisione.
Il ricorso e' fondato e deve essere accolto.
E'materia del contendere la legittimita' del provvedimento con cui la Prefettura in dichiarata ottemperanza alla sentenza emessa dall'adito Tar n. 259/2012, passata in giudicato, ha negato a lricorrente in servizio presso la Questura di T. e adibito a mansioni amministrative, il rinnovo della licenza di porto di pistola per uso personale, diversa dall'arma di ordinanza.
Va evidenziato come con la sentenza n. 259/2012, passata ingiudicato, l'adito Tar ha annullato il precedente analogo diniego e intimato all'Amministrazione di rivalutare l'istanza "con la massima sollecitudine" edin conformita' ai criteri conformativi ivi stabiliti; in particolare,il decisum ha evidenziato la manifesta illogicita' dell'operato dell'Amministrazione, risultando il ricorrente gia' autorizzato all'utilizzo dell'arma da fuoco in dotazione e limitando la possibilita' di difesa di un agente.
Haaltresi' escluso il venir meno di ragioni di pericolo per il solo fatto di essere stato adibito dal 2009 a mansioni amministrative,essendo la possibilita' di essere armato anche fuori dal servizio"fatto intrinsecamente indicativo della sussistenza di condizioni di pericolo insite nella natura stessa della funzione".
Risulta pertanto oramai coperta dal giudicato, come condivisibilmente prospettato dalla difesa del ricorrente, anche la questione circa la mancata corrispondenza tra la cessazione dal servizio effettivo e l'esposizione al pericolo per la propria incolumita', cosi' come deve essere evidenziata la portata sostanziale del giudicato, non limitato al mero annullamento per difetto di motivazione, ma esteso a profili sostanziali della pretesa azionata dal ricorrente.
E'pertanto evidente come il suddetto giudicato non restituisca all'Amministrazione una"facolta' di scelta" incondizionata, ma un potere-dovere diadottare un provvedimento di cura dell'interesse pubblico, che non contrasti o eluda il giudicato;ne deriva che i principi emergenti dalla decisione non possono essere valutati come semplici "obiter dicta", poiche' la loro funzione e' quella di contribuire complessivamente alla concreta individuazione della regola giuridica assunta dalla decisione da eseguire (Consiglio di Stato sez. IV, 22 gennaio 2013, n.369).
Da ultimo, si e' autorevolmente osservato che pur dovendosi salvaguardare la sfera di autonomia e di responsabilita' dell'Amministrazione, grava su quest'ultima l'obbligo di soddisfare la pretesa del ricorrente vittorioso, nell'ottica di leale ed imparziale esercizio del munus publicum (art.97 Cost. e Convenzione E.D.U.) oltreche di buona fede e correttezza (Consiglio di Stato Adunanza Plenaria, 15 gennaio 2013, n.2).
Tanto premesso, e' del tutto evidente il contrasto del nuovo provvedimento di rigetto qui impugnato con gli specifici criteri conformativi derivanti dal giudicato, dal momento che l'Amministrazione, a seguito dell'annullamento giurisdizionale, ha nuovamente riproposto il proprio mutato convincimento - in difformita' da quanto ritenuto perun ventennio - circa il venir meno dell'attualita' del pericolo,cosi' alterando l'assetto degli interessi di cui al decisum.
Meritano quindi piena condivisione le doglianze.
Parimenti fondate risultano le censure dedotte con il II motivo.
Ritiene il Collegio che a fronte dell'ormai definitivo accertamento di uno stato di pericolo attuale incombente sulla persona del ricorrente,che comunque lo legittima all'utilizzo permanente della pistola d'ordinanza anche al di fuori del servizio prestato, sia del tutto manifesta l'irragionevolezza dell'impugnato diniego, essendo la fattispecie del tutto differente da quella che si verifica in sede di ordinaria autorizzazione al porto d'armi nei confronti di comuni cittadini, ove vige la regola della eccezionalita' nei confronti di soggetti non abilitati all'uso di armi e per cui la giurisprudenza anche di questo Tribunale ha da sempre evidenziato l'ampia discrezionalita' dell' Autorita' di Pubblica sicurezza.
Del resto trattasi anche in questo caso di affermazioni puntualmente gia' contenute nel primo giudicato di annullamento.
Alla luce delle esposte considerazioni il ricorso e' dunque fondato, con l'effetto di annullare il provvedimento impugnato e conseguente obbligo della Prefettura di procedere al rinnovo del porto d'armi richiesto dal ricorrente, venendosi ad esaurire il potere esercitato con il secondo giudicato di annullamento.
Avv.Francesco Pandolfi
3286090 590
skype:francesco.pandolfi8
francesco.pandolfi66@gmail.com
(www.StudioCataldi.it)
martedì 4 novembre 2014
LA MALATTIA NON PUO' SOSPENDERE LA MATURAZIONE DELLE FERIE
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 14 aprile – 29 luglio 2014, n. 17177
Presidente
Roselli – Relatore Tria
"il diritto del lavoratore alle ferie annuali, tutelato dall'art. 36 Cost., è ricollegabile non solo ad ima funzione di corrispettivo dell'attività lavorativa, ma altresì - come riconosciuto dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 616 del 1987 e n. 158 del 2001 - al soddisfacimento di esigenze psicologiche fondamentali del lavoratore, il quale - a prescindere dalla effettività della prestazione - mediante le ferie può partecipare più incisivamente alla vita familiare e sociale e può vedersi tutelato il proprio diritto alla salute nell'interesse dello stesso datore di lavoro; da ciò consegue che la maturazione di tale diritto non può essere impedita dalla sospensione del rapporto per malattia del lavoratore e che la stessa autonomia privata, nella determinazione della durata delle ferie ex art. 2109, capoverso, cod. civ., trova un limite insuperabile nella necessità di parificare ai periodi di servizio quelli di assenza del lavoratore per malattia"
"il diritto del lavoratore alle ferie annuali, tutelato dall'art. 36 Cost., è ricollegabile non solo ad ima funzione di corrispettivo dell'attività lavorativa, ma altresì - come riconosciuto dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 616 del 1987 e n. 158 del 2001 - al soddisfacimento di esigenze psicologiche fondamentali del lavoratore, il quale - a prescindere dalla effettività della prestazione - mediante le ferie può partecipare più incisivamente alla vita familiare e sociale e può vedersi tutelato il proprio diritto alla salute nell'interesse dello stesso datore di lavoro; da ciò consegue che la maturazione di tale diritto non può essere impedita dalla sospensione del rapporto per malattia del lavoratore e che la stessa autonomia privata, nella determinazione della durata delle ferie ex art. 2109, capoverso, cod. civ., trova un limite insuperabile nella necessità di parificare ai periodi di servizio quelli di assenza del lavoratore per malattia"
martedì 28 ottobre 2014
CARABINIERE SUGGERISCE L'AVVOCATO ALL'ARRESTATO - ABUSO D'UFFICIO
Con
la sentenza impugnata veniva confermata la sentenza del Tribunale di
Cagliari del 30/11/2012, con la quale...X.... era ritenuto
responsabile del reato continuato di cui agli artt. 323 e 479 cod.
pen., commesso fino al 13/04/2007, quale maresciallo in servizio
presso le Stazioni dei Carabinieri di Sinnai prima e di Quartu S.
Elena poi, nominando l'avv. Y difensore d'ufficio degli arrestati
, nonostante lo stesso non fosse inserito nell'elenco dei difensori
reperibili predisposto dal locale consiglio dell'ordine degli
avvocati, sollecitando gli arrestati, o i congiunti degli stessi a
nominare l'avv. .Y quale difensore di fiducia ed attestando
falsamente, nei verbali, che l'arrestato era stato interpellato con
esito negativo circa la volontà di nominare un difensore di fiducia.
domenica 26 ottobre 2014
SANZIONI DISCIPLINARI - TEMPI PER LA CONTESTAZIONE
La
Cassazione ha affermato (Sez. L, Sentenza n. 20719 del
10/09/2013; Sez. L, Sentenza n. 15649 del 01/07/2010; Sez. L,
Sentenza n. 18711 del 06/09/2007; Sez. L, Sentenza n. 14113 del
20/06/2006) che, in tema di procedimento disciplinare, il principio
secondo il quale l'addebito deve essere contestato immediatamente va
inteso in un'accezione relativa, compatibile con l'intervallo di
tempo necessario al datore di lavoro per il preciso accertamento
delle infrazioni commesse dal prestatore. La valutazione
dell'immediatezza della contestazione è rimessa alla valutazione del
giudice di merito (il cui giudizio, insindacabile in sede di
legittimità ove sia immune da vizi logici e sia adeguatamente
motivato), il quale è libero di attingere il proprio convincimento
da quelle prove che ritenga più attendibili ed idonee.
La
Corte ha più volte affermato (Sez. L, Sentenza n. 3600 del
16/02/2010; Sez. L, Sentenza n. 4502 del 21/02/2008) che, ai fini
dell'accertamento della sussistenza del requisito della tempestività
del licenziamento, in caso di intervenuta sospensione cautelare di un
lavoratore sottoposto a procedimento penale, la definitiva
contestazione disciplinare ed il licenziamento per i relativi fatti
ben possono essere differiti in relazione alla pendenza del
procedimento penale stesso; si è precisato inoltre (Sez. L, Sentenza
n. 3697 del 17/02/2010; Sez. L, Sentenza a 3697 del 17/02/2010) che,
in tema di procedimento disciplinare a carico di pubblici dipendenti,
per fatti penalmente rilevanti, non è ipotizzabile la violazione del
principio di immediatezza della contestazione e dell'adozione del
provvedimento disciplinare, qualora la P.A., uniformandosi alle
disposizioni della contrattazione collettiva in caso di emergenza di
fatti-reato, abbia atteso l'esito delle indagini e del processo,
destinando il dipendente ad altre mansioni, e in seguito, avuta
notizia, in via ufficiale, del rinvio a giudizio, abbia provveduto
alla sospensione cautelare e, all’esito del processo penale, a
nuova valutazione dei fatti ascritti al lavoratore, disponendone il
licenziamento.
In
tema di procedimento disciplinare, ai fini dell'accertamento della
sussistenza del requisito della tempestività della contestazione, in
caso di intervenuta sospensione cautelare di un lavoratore sottoposto
a procedimento penale, la contestazione disciplinare per i relativi
fatti ben può essere differita dal datore di lavoro in relazione
alla pendenza del procedimento penale stesso, anche in ragione delle
esigenze di tutela del segreto istruttorio.
sabato 25 ottobre 2014
MILITARI - RISARCIMENTO DANNI.
Militari: sicurezza sul lavoro, risarcimento danni per euro 150.000,00 oltre interessi
Avv. Francesco Pandolfi
cassazionista
Un nota di commento alla sentenza n. 2020/12 del Tar Lombardia – Brescia sez. 1 - in tema di sicurezza sul lavoro in ambito militare e risarcimento dei danni biologico, morale, psichico, esistenziale, alla vita di relazione e alla dignità personale anche per violazione di norme antinfortunistiche da parte dell’amministrazione.
Il principio generale ricavabile dalla lettura del testo della sentenza offre e conferma le preziose linee guida da utilizzare per la domanda di danni anche avanti il Tar, similmente a quanto accade per le istanze promosse davanti il Giudice Ordinario o al Magistrato del Lavoro.
I criteri per approdare alla prova del danno sono: 1) il ricorrente deve provare i fatti costitutivi dell'obbligazione, ovvero il titolo di essa, 2) può limitarsi ad allegare il fatto dell'inadempimento, 3) deve provare il danno subito e il nesso causale fra l'inadempimento ed il danno ( così in termini generali ma la soluzione, nel senso che il danneggiato possa limitarsi ad allegare l'inadempimento, è costante a partire dalla nota Cass. civ. S.U. 30 ottobre 2001 n. 13533 ).
Con ricorso 2008, A. ha premesso di essere militare in sevizio nell'Arma dei Carabinieri, di esser stato ricoverato d'urgenza il 1xxxx presso l'Ospedale di C., di avere ricevuto in tale occasione la diagnosi di sclerosi multipla, di esser stato quindi, in dipendenza dalla malattia contratta, trasferito presso la Stazione CC di C. quale addetto al servizio rilevamento dati, mansione che comportava anche la necessità di archiviare manualmente pesante materiale cartaceo, posto su scaffali a notevole altezza; di essere, asseritamente a causa delle sue precarie condizioni di salute, precipitato da una scala utilizzata per tale mansione e di avere per tal fatto subito un danno alla persona, a suo dire dovuto a negligenza dell'amministrazione sua datrice di lavoro; ha pertanto concluso per la condanna della stessa al ristoro del danno patito.
Ha resistito alla domanda l'amministrazione della Giustizia, con memoria formale nella quale ha chiesto la reiezione del ricorso.
Il Collegio ha disposto CTU medico legale sui fatti di causa, intesa ad appurare quanto richiesto dal ricorrente nei termini di cui in epigrafe; la Sezione ha inoltre disposto la comparizione personale del CTU per chiarimenti, indi ha ritenuto la causa non compiutamente istruita quanto agli aspetti medico legali, e più specificamente quanto all'influenza della patologia già in essere a carico del ricorrente sull'allegato infortunio, quanto alla eziologia dell'allegato danno e quanto alla misura di esso ed ha disposto la rinnovazione della CTU, affidandola a diverso consulente.
La domanda del ricorrente nel merito è da ritenersi fondata.
Occorre ricordare che A. ha agito nella presente sede per sentir condannare l'amministrazione di appartenenza al risarcimento del danno asseritamente arrecatogli a titolo di responsabilità contrattuale: tale dato non muta anche osservando che il richiamo al "contratto di lavoro" è giuridicamente impreciso, trattandosi propriamente di militare legato all'amministrazione da un rapporto di servizio: anche da tale rapporto, così com'è pacifico, sorgono diritti ed obblighi delle parti, il cui inadempimento può generare responsabilità civile: in tal senso, per implicito ma inequivocabilmente, TAR Puglia Bari sez. III 27 gennaio 2011 n. 190, che si cita per tutte, in quanto relativa al caso analogo di un militare della Guardia di Finanza.
La giurisprudenza, nel caso particolare, che qui rileva, del rapporto concernente una prestazione lavorativa, in cui si faccia valere la responsabilità del datore per infortunio subito dal dipendente, traduce le regole generali in materia di danno nell'equivalente massima secondo la quale il lavoratore ha il solo onere di provare il fatto costituente l'inadempimento e il nesso di causalità materiale tra l'inadempimento e il danno; non deve invece provare la colpa del datore di lavoro, nei cui confronti opera la presunzione posta dall'art. 1218 c.c.: così per tutte Cass. civ. sez. lavoro 19 giugno 2007 n°16003 ( in termini logici, è infatti chiaro che dover provare il fatto storico dell'inadempimento, ma non la colpa della controparte, significa avere l'onere di provare che l'obbligazione sussiste con certi connotati, ma potersi limitare all'allegazione dell'inadempimento ).
A riprova, la stessa giurisprudenza in tema di infortuni sul lavoro è costante nell'affermare che, a fronte della prova suddetta da parte del lavoratore, il datore può andare esente da responsabilità solo se a sua volta provi che il danno è avvenuto per causa a lui non imputabile, ovvero in concreto se dimostri di avere adottato tutte le cautele necessarie, che per inciso possono anche non esaurirsi nel mero rispetto di misure antinfortunistiche tipiche indicate dalla legge.
Le regole così delineate si applicano infine anche al caso di specie, di militari dipendenti dalla relativa amministrazione: così la già citata TAR Puglia Bari sez. III n. 190/2011, nonché Cass. pen. sez. IV 14 maggio 2002 n. 34345, per l'esplicita affermazione secondo la quale l'obbligo di rispettare le norme antinfortunistiche sussiste anche nei riguardi del personale militare nell'ambito delle relative strutture.
Nel caso di specie, applicando le regole esposte, ritiene il Collegio che sussistano tutti gli estremi per accogliere la domanda risarcitoria di A.
In primo luogo, il ricorrente ha provato i fatti storici presupposto dell'obbligazione inadempiuta, ha cioè dato la prova di essere militare in servizio nell'Arma dei Carabinieri sin dal 1xxx; di essersi ammalato il 1xxxx di quella che all'inizio venne qualificata come "malattia demielinizzante" e successivamente in modo più preciso come "sclerosi multipla", e di essere stato successivamente assegnato - su propria domanda e non d'ufficio, come invece sostenuto nel ricorso, anche se il dato appare ai fini di causa non influente - alla Stazione C.C. di C. quale "addetto al rilevamento dati".
Si deve poi tener conto, ai fini suddetti, ma anche più in generale per la prova di tutti gli ulteriori fatti di causa rilevanti, della condotta processuale della p.a.
intimata, la quale ha solo chiesto "cautelativamente" il rigetto del ricorso.
In proposito, il Collegio deve ripetere quanto già affermato nella propria sentenza 9 giugno 2011 n. 860, peraltro conforme a consolidati principi dottrinali e giurisprudenziali. Da un lato, ai sensi dell'art. 39 comma 1 c.p.a., che peraltro riproduce una precedente norma applicata in via pacifica, al processo innanzi al giudice amministrativo "si applicano le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili o espressione di principi generali"; dall'altro, così come affermato in giurisprudenza, è necessario, se non altro per il rispetto del principio di uguaglianza, riconoscere alle situazioni giuridiche dei pubblici dipendenti, pur se devolute come nel caso presente alla giurisdizione esclusiva del G.A., un trattamento processuale non deteriore rispetto a quello accordato agli altri lavoratori; su detta linea, in particolare, C. cost. 28 giugno 1985 n. 190 ha dichiarato illegittimo l'art. 21 dell'allora vigente l. TAR nella parte cui non riconosceva agli stessi la medesima tutela cautelare disponibile presso il Giudice ordinario del lavoro.
In tale quadro concettuale, non si può non ritenere applicabile al giudizio su un rapporto di pubblico impiego non contrattualizzato in sede di giurisdizione esclusiva il principio di cui all'art. 416 comma 3 prima parte c.p.c., che è indubbiamente tale se non altro perché conforme al novellato art. 167 c.p.c.: il convenuto nel processo di lavoro nel primo suo atto difensivo "deve prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall'attore a fondamento della domanda".
Con riguardo alle circostanze specifiche, del rapporto di servizio, dell'iniziale malattia del ricorrente e della sua assegnazione a C., va comunque detto, ad abbondanza, che si tratta di fatti non contestati anche in prosieguo di causa.
Il ricorrente ha poi provato la specifica obbligazione inadempiuta, ovvero il fatto storico dell'infortunio sul lavoro occorsogli: presso la Stazione di C., egli venne adibito in particolare al Casellario, e in tale mansione, avente in buona sostanza contenuto archivistico, si trovò nella necessità di spostare a mano, per prelevarli dalle scaffalature e riporli, pesanti faldoni cartacei; nell'espletare tale attività salì su una scala in dotazione per sistemare alcuni fascicoli che reggeva in mano, perse l'equilibrio, precipitò dalla scala stessa da una altezza di circa tre metri e batté il capo sul pavimento, perdendo i sensi e venendo ricoverato all'ospedale.
Il ricorrente ha infine dato la prova del danno subito e del nesso causale fra l'inadempimento ed il danno.
Le conclusioni dell’ulteriore CTU, sono risultate sostanzialmente in linea con quelle della CTU C. per quanto riguarda l'accertamento della patologia in atto e delle relative cause, e quindi ne costituiscono una sostanziale conferma di validità sul punto, discostandosene solo in punto di liquidazione del danno.
Il Collegio condivide appieno le conclusioni delle CTU svolte, ritenendosi accertato che A., a causa del trauma subito, ebbe a soffrire una lesione inquadrabile "nella compromissione delle funzioni cognitive" compromissione che è ulteriormente descritta nella CTU dott. S. in termini di difficoltà a concentrarsi, a mantenere l'attenzione, ad apprendere e a ricordare. Il CTU dott. C. qualifica poi in termini sintetici tale patologia come "danno aggiuntivo rispetto alla patologia preesistente", ovvero alla sclerosi multipla in essere, e il CTU dott. S. è concorde con tale conclusione.
E’ interessante notare che a tali considerazioni di ordine prettamente medico legale sul nesso di causalità fra l'infortunio occorso e il danno subito, ne va ad abbondanza aggiunta un'altra che assume valore per lo meno indiziario: vi è infatti anche l'apprezzamento dell'amministrazione, la quale, come da verbale 2xxx della Commissione medica di B., richiesta dal Comando C.C. di appartenenza, ebbe a giudicare come dipendente da causa di servizio il trauma cranico occorso. Se è vero che il giudizio della Commissione è limitato, dichiaratamente, al solo trauma cranico, non si deve infatti sottacere che nel verbale relativo si parla degli "esiti" del trauma in questione e si dà ampio conto della situazione neurologica del paziente.
L'amministrazione, infine, non ha dato prova alcuna della dipendenza dell'infortunio da causa ad essa non imputabile, nel senso di avere adottato tutte le misure antinfortunistiche idonee nel caso concreto; di contro, è stata raggiunta la prova positiva che carenze nelle misure antinfortunistiche vi furono.
L'amministrazione non ha contestato la complessiva ricostruzione dell'infortunio svolta dal ricorrente; per quanto attiene all'uso delle scale, esiste in proposito una disciplina specifica, che all'epoca dei fatti era quella di cui agli artt. 18 e ss d.p.r. n.547/55 e 8 del d.p.r. n.164/56, sicuramente applicabili anche all'amministrazione militare: non risulta infatti che un uso potenzialmente pericoloso delle scale a mano faccia parte delle "particolari esigenze connesse al servizio espletato" che ai sensi della norma in questione limitano l'applicazione delle norme antinfortunistiche ai Corpi militari ed equiparati.
Rileva in particolare l'art. 19 del D.P.R. 547/1995, secondo il quale "quando l'uso delle scale, per la loro altezza o per altre cause, comporti pericolo di sbandamento, esse devono essere trattenute al piede da altra persona"; rileva ancora l'art. 8 del D.P.R. 164/1956, per cui "durante l'uso le scale devono essere sistemate e vincolate. All'uopo, secondo i casi, devono essere adoperati chiodi, graffe in ferro, listelli, tasselli, legature, saettoni, in modo che siano evitati sbandamenti, slittamenti, rovesciamenti, oscillazioni od inflessioni accentuate (comma 4). Quando non sia attuabile l'adozione delle misure di cui al precedente comma, le scale devono essere trattenute al piede da altra persona (comma 5)."
E' poi rilevante anche il disposto dell'art. 113 comma 7 d.lgs. n.81/08 che, pur non in vigore all'epoca dei fatti, appare a sua volta recepire regole di buona prassi e comune diligenza da osservare in ogni caso: esso dispone che "Il datore di lavoro assicura che le scale a pioli siano utilizzate in modo da consentire ai lavoratori di disporre in qualsiasi momento di un appoggio e di una presa sicuri. In particolare il trasporto a mano di pesi su una scala a pioli non deve precludere una presa sicura."
Alla luce di quanto appena esposto, si deve concludere che nell'infortunio occorso ad A. la condotta dell'amministrazione va qualificata come negligente; tra l’altro, in tale contesto l'amministrazione stessa provvide a nominare i rappresentanti per la sicurezza solo nel maggio 1998, ovvero a più di tre anni di distanza dall'entrata in vigore del d. lgs. 626/94 (pubblicato in G.U. il 12 novembre 1994 ed entrato in vigore, secondo la regola generale il quindicesimo giorno successivo): si tratta ad avviso del Collegio di una violazione del sopra ricostruito obbligo di diligente promozione, considerando sia il tempo passato sia il modesto onere economico connesso a tale adempimento. In proposito, non vi è poi dubbio che la nomina tempestiva del rappresentante, incaricato come per legge di segnalare le carenze nella prevenzione infortuni, avrebbe potuto evitare il fatto, ad esempio promuovendo una più tempestiva eliminazione delle scale in questione.
Per completezza va considerata di per sé negligente la condotta dell'amministrazione che nella specie adibì A. ai descritti compiti di archiviazione: questa non disconobbe le condizioni particolari del ricorrente attivandosi per trovargli una sede di servizio che lo potesse agevolare, ma essendosi assunta tale obbligo, doveva secondo logica adempierlo in modo compiuto, verificando che le mansioni in concreto assegnate fossero effettivamente adatte alle condizioni di A, il che come si è detto invece non si verificò.
In punto di quantificazione e liquidazione del danno, essa si compie con il noto sistema della tabella dei punti percentuali di invalidità, ad ognuno dei quali, in relazione con l'età del soggetto, corrisponde una data somma di danaro; si fa in particolare riferimento alla cd. tabella di Milano, elaborata per iniziativa di quel Tribunale, che, secondo quanto affermato dalla argomentata decisione Cass. sez. III 7 giugno 2011 n°12408, costituisce comunque criterio valido su scala nazionale, in quanto esplicazione dell'equità di cui all'art. 2056 c.c.
Applicando i suddetti criteri al caso concreto, bisogna farsi carico della divergente conclusione, come si è detto l'unica di rilievo, raggiunta sul punto dagli esperti nominati. Il dott. C, facendo riferimento alla citata tabella di Milano, ha infatti determinato l'invalidità dipendente dal disturbo cognitivo di cui si è detto nel 40%, come danno derivante dalla sola caduta. Il dott. S. invece determina la stessa invalidità in un valore inferiore, del 30%, a titolo di invalidità permanente, cui aggiunge l'invalidità temporanea Il Collegio ritiene di far propria tale ultima valutazione, per i motivi di cui subito.
In primo luogo, il dott. S., che come si è detto è in possesso di specifica preparazione medico legale, non riscontrabile nel primo perito, si è riferito a prontuari di riferimento ben precisi, puntualmente citati, riguardo ai quali stavolta l'amministrazione intimata non ha ritenuto di avanzare critica alcuna.
In secondo luogo, lo stesso CTU si è fatto specifico carico di individuare il metodo migliore per calcolare il danno, escludendo che si possa nella specie applicare il criterio del c.d. danno differenziale, che avrebbe determinato una liquidazione maggiore. In proposito, è sufficiente ricordare che tale criterio, tuttora di per sé controverso e non universalmente accettato in letteratura, si applica sul presupposto di più lesioni succedutesi nel tempo a carico del "medesimo distretto organo funzionale", mentre nel caso presente sono interessate "due funzioni neurologiche distinte", ovvero "l'area motoria", colpita dalla sclerosi, e quella "cognitiva", interessata dal trauma (elaborato dott. So., pp. 31 e 32).
Infine, il dott. S. ha operato una delimitazione più precisa del danno subito, escludendo che ne possa far parte la sindrome depressiva riscontrata nel ricorrente dopo il trauma, sindrome che da un lato è spiegabile come reazione alla grave malattia già in atto, dall'altro non è stata oggetto di specifici approfondimenti.
Tutto ciò posto, la citata tabella di Milano, per una invalidità del 30% in un soggetto il quale alla data dell'infortunio aveva 27 anni conducono a liquidare un danno pari ad Euro 150.590 (centocinquantamilacinquecentonovanta/00), che il Collegio ritiene di riconoscere senza incrementi per le c.d. personalizzazioni, ovvero per specifici e ulteriori pregiudizi sofferti dall'interessato; alla somma liquidata andranno infine aggiunti gli interessi legali.
Fonte: (www.StudioCataldi.it)
Avv. Francesco Pandolfi
cassazionista
Un nota di commento alla sentenza n. 2020/12 del Tar Lombardia – Brescia sez. 1 - in tema di sicurezza sul lavoro in ambito militare e risarcimento dei danni biologico, morale, psichico, esistenziale, alla vita di relazione e alla dignità personale anche per violazione di norme antinfortunistiche da parte dell’amministrazione.
Il principio generale ricavabile dalla lettura del testo della sentenza offre e conferma le preziose linee guida da utilizzare per la domanda di danni anche avanti il Tar, similmente a quanto accade per le istanze promosse davanti il Giudice Ordinario o al Magistrato del Lavoro.
I criteri per approdare alla prova del danno sono: 1) il ricorrente deve provare i fatti costitutivi dell'obbligazione, ovvero il titolo di essa, 2) può limitarsi ad allegare il fatto dell'inadempimento, 3) deve provare il danno subito e il nesso causale fra l'inadempimento ed il danno ( così in termini generali ma la soluzione, nel senso che il danneggiato possa limitarsi ad allegare l'inadempimento, è costante a partire dalla nota Cass. civ. S.U. 30 ottobre 2001 n. 13533 ).
Con ricorso 2008, A. ha premesso di essere militare in sevizio nell'Arma dei Carabinieri, di esser stato ricoverato d'urgenza il 1xxxx presso l'Ospedale di C., di avere ricevuto in tale occasione la diagnosi di sclerosi multipla, di esser stato quindi, in dipendenza dalla malattia contratta, trasferito presso la Stazione CC di C. quale addetto al servizio rilevamento dati, mansione che comportava anche la necessità di archiviare manualmente pesante materiale cartaceo, posto su scaffali a notevole altezza; di essere, asseritamente a causa delle sue precarie condizioni di salute, precipitato da una scala utilizzata per tale mansione e di avere per tal fatto subito un danno alla persona, a suo dire dovuto a negligenza dell'amministrazione sua datrice di lavoro; ha pertanto concluso per la condanna della stessa al ristoro del danno patito.
Ha resistito alla domanda l'amministrazione della Giustizia, con memoria formale nella quale ha chiesto la reiezione del ricorso.
Il Collegio ha disposto CTU medico legale sui fatti di causa, intesa ad appurare quanto richiesto dal ricorrente nei termini di cui in epigrafe; la Sezione ha inoltre disposto la comparizione personale del CTU per chiarimenti, indi ha ritenuto la causa non compiutamente istruita quanto agli aspetti medico legali, e più specificamente quanto all'influenza della patologia già in essere a carico del ricorrente sull'allegato infortunio, quanto alla eziologia dell'allegato danno e quanto alla misura di esso ed ha disposto la rinnovazione della CTU, affidandola a diverso consulente.
La domanda del ricorrente nel merito è da ritenersi fondata.
Occorre ricordare che A. ha agito nella presente sede per sentir condannare l'amministrazione di appartenenza al risarcimento del danno asseritamente arrecatogli a titolo di responsabilità contrattuale: tale dato non muta anche osservando che il richiamo al "contratto di lavoro" è giuridicamente impreciso, trattandosi propriamente di militare legato all'amministrazione da un rapporto di servizio: anche da tale rapporto, così com'è pacifico, sorgono diritti ed obblighi delle parti, il cui inadempimento può generare responsabilità civile: in tal senso, per implicito ma inequivocabilmente, TAR Puglia Bari sez. III 27 gennaio 2011 n. 190, che si cita per tutte, in quanto relativa al caso analogo di un militare della Guardia di Finanza.
La giurisprudenza, nel caso particolare, che qui rileva, del rapporto concernente una prestazione lavorativa, in cui si faccia valere la responsabilità del datore per infortunio subito dal dipendente, traduce le regole generali in materia di danno nell'equivalente massima secondo la quale il lavoratore ha il solo onere di provare il fatto costituente l'inadempimento e il nesso di causalità materiale tra l'inadempimento e il danno; non deve invece provare la colpa del datore di lavoro, nei cui confronti opera la presunzione posta dall'art. 1218 c.c.: così per tutte Cass. civ. sez. lavoro 19 giugno 2007 n°16003 ( in termini logici, è infatti chiaro che dover provare il fatto storico dell'inadempimento, ma non la colpa della controparte, significa avere l'onere di provare che l'obbligazione sussiste con certi connotati, ma potersi limitare all'allegazione dell'inadempimento ).
A riprova, la stessa giurisprudenza in tema di infortuni sul lavoro è costante nell'affermare che, a fronte della prova suddetta da parte del lavoratore, il datore può andare esente da responsabilità solo se a sua volta provi che il danno è avvenuto per causa a lui non imputabile, ovvero in concreto se dimostri di avere adottato tutte le cautele necessarie, che per inciso possono anche non esaurirsi nel mero rispetto di misure antinfortunistiche tipiche indicate dalla legge.
Le regole così delineate si applicano infine anche al caso di specie, di militari dipendenti dalla relativa amministrazione: così la già citata TAR Puglia Bari sez. III n. 190/2011, nonché Cass. pen. sez. IV 14 maggio 2002 n. 34345, per l'esplicita affermazione secondo la quale l'obbligo di rispettare le norme antinfortunistiche sussiste anche nei riguardi del personale militare nell'ambito delle relative strutture.
Nel caso di specie, applicando le regole esposte, ritiene il Collegio che sussistano tutti gli estremi per accogliere la domanda risarcitoria di A.
In primo luogo, il ricorrente ha provato i fatti storici presupposto dell'obbligazione inadempiuta, ha cioè dato la prova di essere militare in servizio nell'Arma dei Carabinieri sin dal 1xxx; di essersi ammalato il 1xxxx di quella che all'inizio venne qualificata come "malattia demielinizzante" e successivamente in modo più preciso come "sclerosi multipla", e di essere stato successivamente assegnato - su propria domanda e non d'ufficio, come invece sostenuto nel ricorso, anche se il dato appare ai fini di causa non influente - alla Stazione C.C. di C. quale "addetto al rilevamento dati".
Si deve poi tener conto, ai fini suddetti, ma anche più in generale per la prova di tutti gli ulteriori fatti di causa rilevanti, della condotta processuale della p.a.
intimata, la quale ha solo chiesto "cautelativamente" il rigetto del ricorso.
In proposito, il Collegio deve ripetere quanto già affermato nella propria sentenza 9 giugno 2011 n. 860, peraltro conforme a consolidati principi dottrinali e giurisprudenziali. Da un lato, ai sensi dell'art. 39 comma 1 c.p.a., che peraltro riproduce una precedente norma applicata in via pacifica, al processo innanzi al giudice amministrativo "si applicano le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili o espressione di principi generali"; dall'altro, così come affermato in giurisprudenza, è necessario, se non altro per il rispetto del principio di uguaglianza, riconoscere alle situazioni giuridiche dei pubblici dipendenti, pur se devolute come nel caso presente alla giurisdizione esclusiva del G.A., un trattamento processuale non deteriore rispetto a quello accordato agli altri lavoratori; su detta linea, in particolare, C. cost. 28 giugno 1985 n. 190 ha dichiarato illegittimo l'art. 21 dell'allora vigente l. TAR nella parte cui non riconosceva agli stessi la medesima tutela cautelare disponibile presso il Giudice ordinario del lavoro.
In tale quadro concettuale, non si può non ritenere applicabile al giudizio su un rapporto di pubblico impiego non contrattualizzato in sede di giurisdizione esclusiva il principio di cui all'art. 416 comma 3 prima parte c.p.c., che è indubbiamente tale se non altro perché conforme al novellato art. 167 c.p.c.: il convenuto nel processo di lavoro nel primo suo atto difensivo "deve prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall'attore a fondamento della domanda".
Con riguardo alle circostanze specifiche, del rapporto di servizio, dell'iniziale malattia del ricorrente e della sua assegnazione a C., va comunque detto, ad abbondanza, che si tratta di fatti non contestati anche in prosieguo di causa.
Il ricorrente ha poi provato la specifica obbligazione inadempiuta, ovvero il fatto storico dell'infortunio sul lavoro occorsogli: presso la Stazione di C., egli venne adibito in particolare al Casellario, e in tale mansione, avente in buona sostanza contenuto archivistico, si trovò nella necessità di spostare a mano, per prelevarli dalle scaffalature e riporli, pesanti faldoni cartacei; nell'espletare tale attività salì su una scala in dotazione per sistemare alcuni fascicoli che reggeva in mano, perse l'equilibrio, precipitò dalla scala stessa da una altezza di circa tre metri e batté il capo sul pavimento, perdendo i sensi e venendo ricoverato all'ospedale.
Il ricorrente ha infine dato la prova del danno subito e del nesso causale fra l'inadempimento ed il danno.
Le conclusioni dell’ulteriore CTU, sono risultate sostanzialmente in linea con quelle della CTU C. per quanto riguarda l'accertamento della patologia in atto e delle relative cause, e quindi ne costituiscono una sostanziale conferma di validità sul punto, discostandosene solo in punto di liquidazione del danno.
Il Collegio condivide appieno le conclusioni delle CTU svolte, ritenendosi accertato che A., a causa del trauma subito, ebbe a soffrire una lesione inquadrabile "nella compromissione delle funzioni cognitive" compromissione che è ulteriormente descritta nella CTU dott. S. in termini di difficoltà a concentrarsi, a mantenere l'attenzione, ad apprendere e a ricordare. Il CTU dott. C. qualifica poi in termini sintetici tale patologia come "danno aggiuntivo rispetto alla patologia preesistente", ovvero alla sclerosi multipla in essere, e il CTU dott. S. è concorde con tale conclusione.
E’ interessante notare che a tali considerazioni di ordine prettamente medico legale sul nesso di causalità fra l'infortunio occorso e il danno subito, ne va ad abbondanza aggiunta un'altra che assume valore per lo meno indiziario: vi è infatti anche l'apprezzamento dell'amministrazione, la quale, come da verbale 2xxx della Commissione medica di B., richiesta dal Comando C.C. di appartenenza, ebbe a giudicare come dipendente da causa di servizio il trauma cranico occorso. Se è vero che il giudizio della Commissione è limitato, dichiaratamente, al solo trauma cranico, non si deve infatti sottacere che nel verbale relativo si parla degli "esiti" del trauma in questione e si dà ampio conto della situazione neurologica del paziente.
L'amministrazione, infine, non ha dato prova alcuna della dipendenza dell'infortunio da causa ad essa non imputabile, nel senso di avere adottato tutte le misure antinfortunistiche idonee nel caso concreto; di contro, è stata raggiunta la prova positiva che carenze nelle misure antinfortunistiche vi furono.
L'amministrazione non ha contestato la complessiva ricostruzione dell'infortunio svolta dal ricorrente; per quanto attiene all'uso delle scale, esiste in proposito una disciplina specifica, che all'epoca dei fatti era quella di cui agli artt. 18 e ss d.p.r. n.547/55 e 8 del d.p.r. n.164/56, sicuramente applicabili anche all'amministrazione militare: non risulta infatti che un uso potenzialmente pericoloso delle scale a mano faccia parte delle "particolari esigenze connesse al servizio espletato" che ai sensi della norma in questione limitano l'applicazione delle norme antinfortunistiche ai Corpi militari ed equiparati.
Rileva in particolare l'art. 19 del D.P.R. 547/1995, secondo il quale "quando l'uso delle scale, per la loro altezza o per altre cause, comporti pericolo di sbandamento, esse devono essere trattenute al piede da altra persona"; rileva ancora l'art. 8 del D.P.R. 164/1956, per cui "durante l'uso le scale devono essere sistemate e vincolate. All'uopo, secondo i casi, devono essere adoperati chiodi, graffe in ferro, listelli, tasselli, legature, saettoni, in modo che siano evitati sbandamenti, slittamenti, rovesciamenti, oscillazioni od inflessioni accentuate (comma 4). Quando non sia attuabile l'adozione delle misure di cui al precedente comma, le scale devono essere trattenute al piede da altra persona (comma 5)."
E' poi rilevante anche il disposto dell'art. 113 comma 7 d.lgs. n.81/08 che, pur non in vigore all'epoca dei fatti, appare a sua volta recepire regole di buona prassi e comune diligenza da osservare in ogni caso: esso dispone che "Il datore di lavoro assicura che le scale a pioli siano utilizzate in modo da consentire ai lavoratori di disporre in qualsiasi momento di un appoggio e di una presa sicuri. In particolare il trasporto a mano di pesi su una scala a pioli non deve precludere una presa sicura."
Alla luce di quanto appena esposto, si deve concludere che nell'infortunio occorso ad A. la condotta dell'amministrazione va qualificata come negligente; tra l’altro, in tale contesto l'amministrazione stessa provvide a nominare i rappresentanti per la sicurezza solo nel maggio 1998, ovvero a più di tre anni di distanza dall'entrata in vigore del d. lgs. 626/94 (pubblicato in G.U. il 12 novembre 1994 ed entrato in vigore, secondo la regola generale il quindicesimo giorno successivo): si tratta ad avviso del Collegio di una violazione del sopra ricostruito obbligo di diligente promozione, considerando sia il tempo passato sia il modesto onere economico connesso a tale adempimento. In proposito, non vi è poi dubbio che la nomina tempestiva del rappresentante, incaricato come per legge di segnalare le carenze nella prevenzione infortuni, avrebbe potuto evitare il fatto, ad esempio promuovendo una più tempestiva eliminazione delle scale in questione.
Per completezza va considerata di per sé negligente la condotta dell'amministrazione che nella specie adibì A. ai descritti compiti di archiviazione: questa non disconobbe le condizioni particolari del ricorrente attivandosi per trovargli una sede di servizio che lo potesse agevolare, ma essendosi assunta tale obbligo, doveva secondo logica adempierlo in modo compiuto, verificando che le mansioni in concreto assegnate fossero effettivamente adatte alle condizioni di A, il che come si è detto invece non si verificò.
In punto di quantificazione e liquidazione del danno, essa si compie con il noto sistema della tabella dei punti percentuali di invalidità, ad ognuno dei quali, in relazione con l'età del soggetto, corrisponde una data somma di danaro; si fa in particolare riferimento alla cd. tabella di Milano, elaborata per iniziativa di quel Tribunale, che, secondo quanto affermato dalla argomentata decisione Cass. sez. III 7 giugno 2011 n°12408, costituisce comunque criterio valido su scala nazionale, in quanto esplicazione dell'equità di cui all'art. 2056 c.c.
Applicando i suddetti criteri al caso concreto, bisogna farsi carico della divergente conclusione, come si è detto l'unica di rilievo, raggiunta sul punto dagli esperti nominati. Il dott. C, facendo riferimento alla citata tabella di Milano, ha infatti determinato l'invalidità dipendente dal disturbo cognitivo di cui si è detto nel 40%, come danno derivante dalla sola caduta. Il dott. S. invece determina la stessa invalidità in un valore inferiore, del 30%, a titolo di invalidità permanente, cui aggiunge l'invalidità temporanea Il Collegio ritiene di far propria tale ultima valutazione, per i motivi di cui subito.
In primo luogo, il dott. S., che come si è detto è in possesso di specifica preparazione medico legale, non riscontrabile nel primo perito, si è riferito a prontuari di riferimento ben precisi, puntualmente citati, riguardo ai quali stavolta l'amministrazione intimata non ha ritenuto di avanzare critica alcuna.
In secondo luogo, lo stesso CTU si è fatto specifico carico di individuare il metodo migliore per calcolare il danno, escludendo che si possa nella specie applicare il criterio del c.d. danno differenziale, che avrebbe determinato una liquidazione maggiore. In proposito, è sufficiente ricordare che tale criterio, tuttora di per sé controverso e non universalmente accettato in letteratura, si applica sul presupposto di più lesioni succedutesi nel tempo a carico del "medesimo distretto organo funzionale", mentre nel caso presente sono interessate "due funzioni neurologiche distinte", ovvero "l'area motoria", colpita dalla sclerosi, e quella "cognitiva", interessata dal trauma (elaborato dott. So., pp. 31 e 32).
Infine, il dott. S. ha operato una delimitazione più precisa del danno subito, escludendo che ne possa far parte la sindrome depressiva riscontrata nel ricorrente dopo il trauma, sindrome che da un lato è spiegabile come reazione alla grave malattia già in atto, dall'altro non è stata oggetto di specifici approfondimenti.
Tutto ciò posto, la citata tabella di Milano, per una invalidità del 30% in un soggetto il quale alla data dell'infortunio aveva 27 anni conducono a liquidare un danno pari ad Euro 150.590 (centocinquantamilacinquecentonovanta/00), che il Collegio ritiene di riconoscere senza incrementi per le c.d. personalizzazioni, ovvero per specifici e ulteriori pregiudizi sofferti dall'interessato; alla somma liquidata andranno infine aggiunti gli interessi legali.
Fonte: (www.StudioCataldi.it)
domenica 19 ottobre 2014
DIFFAMAZIONE - MILITARE DELLA GUARDIA DI FINANZA ASSOLTO - DIRITTO DI CRITICA E VERIDICITÀ' DEI FATTI RIPORTATI
Avv.
Francesco Pandolfi
Cassazionista
diffamazione
militare aggravata, diritto di critica.
Una bellissima
sentenza della Corte di Cassazione sezione 1 penale ( la
n. 36045 del 20.08.2014 ), ove il militare viene ritenuto non
colpevole perché trattasi di fatto non punibile ai sensi
dell'articolo 51 c.p. in relazione alla diffamazione nei
confronti dello (OMISSIS) e perche' il fatto non costituisce reato in
relazione alla diffamazione nei confronti del (OMISSIS).
In fatto, la
Corte di cassazione ha annullato con rinvio la sentenza della Corte
militare di appello in data 14 marzo 2012, con cui era stata
confermata la condanna, condizionalmente sospesa, di (OMISSIS)
-militare in servizio presso il Nucleo di Polizia Tributaria
della Guardia di Finanza di xxx -per il reato di diffamazione
militare aggravata, ridotta la pena a quattro mesi di
reclusione militare e confermata la decisione del primo giudice
quanto alle restanti conseguenze di legge nonche' alla condanna al
risarcimento dei danni in favore della parte civile costituita,
(OMISSIS), Comandante all'epoca dei fatti di quel Nucleo.
Al (OMISSIS)
era stato contestato, in riferimento all'articolo 47 c.p.m.p., comma
1, n. 2 e articolo 227 c.p.m.p., commi 1, 2 e 3, di avere pubblicato
in data (OMISSIS), mediante uno pseudonimo, sul forum del sito
Internet (OMISSIS) un messaggio contenente giudizi ed affermazioni
non veritieri offensivi della reputazione della Guardia di Finanza,
del Comandante Provinciale di (OMISSIS) Col. (OMISSIS), del
Comandante del Nucleo di Polizia Tributaria di (OMISSIS) Magg.
(OMISSIS) e segnatamente affermando "il Nucleo di P. T. di
(OMISSIS) e' ormai giunto al collasso: gli ufficiali che lo dirigono,
su input del Comandante Provinciale ... Esercitano con continuita' e
sistematicita' un'azione vessatoria nei confronti del personale ...
parlo dell'atteggiamento violento e persecutorio attuato da parte di
questi ufficiali della (OMISSIS)".
La Corte di
merito, nel precedente giudizio d'appello aveva ritenuto non
indispensabile la rinnovazione dibattimentale chiesta dall'appellante
con riguardo al tema della veridicita' dei fatti narrati nel post,
assumendo che non era stata contestata l'aggravante dell'attribuzione
di fatti determinati e che le espressioni utilizzate non potevano
comunque ritenersi compatibili con il diritto di critica,
giacche' il post non faceva riferimento solo ad un atteggiamento
prevaricatorio degli ufficiali, bensi' a concetti piu' gravi
(vessazione, violenza e persecuzione), addirittura aggiungendo un
paragone con la (OMISSIS), sicche' era in ogni caso ampiamente
superato il limite della continenza.
I motivi di
ricorso articolati al proposito venivano ritenuti fondati dalla
Cassazione, che osservava:
I giudici di merito hanno del tutto svalorizzato il dato della non veridicita' dei fatti narrati, benche' il richiamo ad essa fosse presente nell'imputazione, che faceva riferimento a "giudizi ed affermazioni non veritieri offensivi della reputazione..."; la Corte risolve sbrigativamente la questione, rilevando che non era stata contestata all'imputato l'aggravante dell'attribuzione di fatti determinati.
I giudici di merito hanno del tutto svalorizzato il dato della non veridicita' dei fatti narrati, benche' il richiamo ad essa fosse presente nell'imputazione, che faceva riferimento a "giudizi ed affermazioni non veritieri offensivi della reputazione..."; la Corte risolve sbrigativamente la questione, rilevando che non era stata contestata all'imputato l'aggravante dell'attribuzione di fatti determinati.
La questione
della veridicita' dei fatti narrati deve essere diversamente
valutata: per quanto compreso, il messaggio completo conteneva
l'indicazione di fatti specifici, cosicche' - benche' (evidentemente
per un errore materiale) l'intero contenuto del messaggio non sia
stato inserito nell'imputazione - la valutazione delle espressioni
menzionate nel capo di imputazione non puo' prescindere dal resto del
messaggio; in altre parole, se, ad esempio, il messaggio conteneva
l'indicazione specifica di episodi di vessazione, risulta illogica
una valutazione astratta come quella operata dalla Corte, secondo cui
l'uso della parola "vessazione" e' diffamatoria in ogni
caso.
Questo vale
anche per il riferimento alla "(OMISSIS)": espressione
certamente forte, ma che potrebbe assumere una diversa valenza nel
caso fossero provate condotte come quelle menzionate nella missiva
del brigadiere (OMISSIS), che riferisce di impiego indebito di un
militare disabile da parte degli ufficiali (OMISSIS) e
(OMISSIS).
La rilevanza
della questione riguarda sia la valutazione del rispetto del criterio
di continenza, dovendosi riconoscere anche ai militari della Guardia
di Finanza il diritto costituzionale di critica che,
peraltro, deve essere esercitato secondo i limiti generali elaborati
dalla giurisprudenza di questa Corte, sia - nel caso il giudice
ritenesse non rispettato il limite della continenza - la valutazione
complessiva della responsabilita' dell'imputato e, quindi, della
determinazione della pena: ad esempio, potrebbe non risultare piu'
aderente al fatto e alla personalita' dell'imputato la valutazione
sull'intensita' del dolo operata dalla Corte per negare la prevalenza
delle attenuanti generiche sulle aggravanti ritenute.
La sentenza
impugnata veniva dunque annullata con riferimento alla mancata
riapertura dell'istruzione dibattimentale, limitatamente alla
questione della veridicita' dei fatti narrati nel messaggio, nonche'
alla valutazione della natura diffamatoria del messaggio.
La Corte di
appello militare, quale giudice del rinvio, disponeva la riapertura
dell'istruzione dibattimentale; acquisiva in originale la lettera a
firma di (OMISSIS) e i documenti prodotti dall'imputato, concernenti
la documentazione medica e la determinazione del comandante generale
della Guardia di Finanza relativa alla parziale inidoneita' del
militare(OMISSIS) nonche' gli ordini servizio allo stesso relativi;
procedeva all'audizione dei testi (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e
(OMISSIS).
All'esito, in
parziale riforma della sentenza di primo grado, assolveva l'imputato
dal reato contestato limitatamente alle frasi esercitano con
continuita' e sistematicita' un'azione vessatoria, atteggiamento
violento e persecutorio, per l'ingrato compito di (OMISSIS), riferite
al maggiore (OMISSIS), con la formula "perche' il fatto non
costituisce reato"; riconosceva all'imputato le circostanze
attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti; confermava per il
resto la sentenza di condanna del Tribunale ma diminuiva la pena a
mesi due di reclusione militare e riduceva il risarcimento del
danno liquidato in favore della parte civile (OMISSIS) alla misura
complessiva di euro 500.
A ragione,
premesso che la diffamazione contestata si componeva in realta' di
due condotte in concorso formale, l'una ai danni dello (OMISSIS),
l'altra del (OMISSIS), rilevava che solo per la prima poteva
ritenersi dimostrata la veridicita' dei fatti riportati.
Da quanto
accertato emergeva difatti che effettivamente erano stati effettuati
dallo (OMISSIS) i fatti riferiti nel post, di cui avevano dato
conferma i testimoni, consistenti: nei continui e ripetuti controlli
a sorpresa; nell'utilizzo a tal fine di personale distolto dai
compiti di servizio; nelle ispezioni personalmente effettuate per
verificare che nessuno consumasse un qualche alimento durante il
servizio (anche annusando l'aria e controllando i cestini getta
carte); nel frazionamento dei servizi esterni per impedire la
fruizione di buoni pasti; infine
(ma
soprattutto) nella destinazione e nell'impiego del militare (OMISSIS)
a servizi esterni dai quali era esonerato per grave invalidita' e che
risultavano incompatibili con le sue condizioni di salute.
Tali condotte
potevano fondatamente qualificarsi ingiustificate e vessatorie, in
quanto oppressive, moleste e finanche persecutorie, oltre che
violente (almeno dal punto di vista morale) e lesive della dignita'
morale del sottoposto con riferimento all'impiego del (OMISSIS) in
servizi non consoni alla sua condizione di invalido per ragioni di
servizio.
Adeguata alla
ricostruzione dei controlli demandati dallo (OMISSIS) ai
sottoufficiali, poteva ritenersi inoltre la frase che richiamava
l'ingrato compito di (OMISSIS).
Non
altrettanto, ad avviso della Corte di merito, poteva dirsi per le
frasi (OMISSIS), stato di terrore e angherie, usate nel messaggio,
che trascendevano la realta' e la continenza e si risolvevano in
(pura) denigrazione della persona.
Con
riferimento al (OMISSIS), invece, non poteva per nessun aspetto
parlarsi di esercizio del diritto di critica, giacche' non
risultava affatto provato che le condotte trasbordanti le esigenze di
disciplina e di servizio fossero state da lui poste in essere. I
militari (OMISSIS) e (OMISSIS) avevano riferito che dei comportamenti
dello (OMISSIS) era stato messo a conoscenza anche il comandante
provinciale (OMISSIS), ma questo non significava che lo stesso avesse
posto in essere quel tipo di condotte o che le avesse anche solo in
parte giustificate. E non v'era prova che (OMISSIS) non avesse in
qualche modo cercato di ostacolare l'atteggiamento dello (OMISSIS)
(sul punto non erano state rivolte domande al (OMISSIS) e quelle
poste allo (OMISSIS) non erano state ammesse).
Ha proposto
ricorso il (OMISSIS), personalmente, chiedendo l'annullamento della
sentenza di condanna.
Con il primo
motivo denunzia violazione della legge processuale mancanza,
contraddittorieta' - anche esterna, rispetto agli atti acquisiti - e
manifesta illogicita' della motivazione con riferimento alla
esclusione della verita' dei fatti e all'esercizio del diritto di
critica in relazione alle accuse mosse al comandante (OMISSIS).
Tutti testi
(non i soli (OMISSIS) e (OMISSIS) come aveva riconosciuto la stessa
sentenza impugnata, ma anche, espressamente, (OMISSIS) e (OMISSIS),
come emergeva dai verbali allegati) avevano concordemente riferito
che l'appuntato (OMISSIS) veniva adibito a servizi esterni sia dallo
(OMISSIS) sia dal (OMISSIS), e dagli stessi ordini di servizio
prodotti, citati a pag. 22 della sentenza impugnata (e allegati al
ricorso), emergeva il coinvolgimento del (OMISSIS), che aveva
personalmente sottoscritto la maggior parte di detti ordini di
servizio.
Era dunque patentemente illogico ritenere non dimostrato che il medesimo comportamento definito violento e persecutorio, era stato posto in essere anche dal (OMISSIS).
Era dunque patentemente illogico ritenere non dimostrato che il medesimo comportamento definito violento e persecutorio, era stato posto in essere anche dal (OMISSIS).
Con il
secondo motivo denunzia violazione di legge sostanziale e processuale
onche' mancanza e vizi della motivazione, con riferimento alla
ritenuta valenza diffamatoria delle espressioni (OMISSIS), stato di
terrore, spirale di angherie.
La stessa
Cassazione, nella sentenza di annullamento, aveva evidenziato che la
prima espressione poteva assumere valenza non diffamatoria ove
fossero risultati veri gli episodi denunciati. L'esclusione della
scriminante del diritto di critica con riferimento a dette
espressioni cozzava d'altro canto con il riconoscimento che i
comportamenti posti in essere dal comandante erano violenti,
vessatori e persecutori, dunque anche contrari alla legge, specie ove
riferiti a quanto concerneva l'atteggiamento adottato nei confronti
del (OMISSIS). Ingiustificatamente s'era omesso di considerare
quindi: da un lato che vessazioni e angherie sono, nell'uso corrente,
sinonimi; dall'altro che la stessa sentenza riconosceva che tutti i
militari pativano con ansia i controlli ricordati, esisteva un
generalizzato malcontento, erano stati manifestati sdegno e paura.
Ciò
premesso,
osserva il
Collegio che il ricorso appare, nei termini che verranno
precisati, fondato.
Va brevemente
ricordato che lo scritto pubblicato tramite internet dall'imputato
era composto da una parte in cui si riferivano determinati
comportamenti dei comandanti, territoriale e provinciale, del nucleo
di polizia tributaria della Guardia di Finanza di Lecce, da altra in
cui si commentavano e definivano in termini aspramente negativi e
decisamente, dal punto di vista oggettivo, offensivi, tali
comportamenti.
I giudici del
merito, nelle precedenti fasi, avevano ritenuto che l'obiettiva
gravita' e la pesantezza di tali definizioni e commenti, ritenuti di
per se' eccedenti la continenza, rendevano superfluo l'accertamento
sulla verita' dei fatti cui dette critiche si riferivano.
La sentenza
di annullamento con rinvio, facendo applicazione dei consolidati
principi in tema di diritto alla libera manifestazione del
pensiero, in genere, e di diritto di denunzia e di critica in
particolare, ha imposto ai giudici del merito di verificare la
verita' dei fatti narrati, cosi' spazzando via ogni dubbio sulla
astratta possibilita' di ritenere scriminabili le critiche, anche
esasperate, formulate nel post alla luce degli eventuali esiti di
tale accertamento.
Disposta
l'audizione dei testimoni richiesti dalla difesa dell'imputato, e
acquisiti i documenti che questo aveva chiesto di produrre, la Corte
di appello ha ritenuto che quanto alle condotte poste materialmente
in essere dallo (OMISSIS), lo scritto dell'imputato dicesse, dal
punto di vista obiettivo, la verita'.
In
particolare ha rilevato che lo stesso era l'autore di particolari
modalita' esplicative del proprio comando ... non ortodosse ne' ...
giustificate da reali ragioni oggettive; che pretendeva fossero
effettuati controlli del personale in servizio anche piu' volte al
giorno, in modo seriale e ripetitivo, giungendo persino alla
verifica, con una sorta di schedatura, delle momentanee assenze per
l'uso dei servizi igienici e del consumo di cibo da asporto; che ad
assumere l'ingrata veste di controllori erano costretti gli stessi
militari in forza al nucleo; che il personale viveva in modo
ansiogeno tali metodi esasperati di presunta disciplina; che il
malcontento era generale; che l'appuntato (OMISSIS), affetto da grave
invalidita' e formalmente esonerato dai servizi esterni, era stato
effettivamente comandato e impiegato in servizi esterni gravosi,
durati sino a nove ore consecutive, senza alcuna necessita' legata a
carenze di organico; che tutti i militari sentiti avevano riferito
con sdegno gli episodi relativi al collega.
In altri
termini, secondo la sentenza impugnata: era risultato sicuramente
vero che il maggiore (OMISSIS) stesse esercitando con continuita' e
sistematicita' una azione vessatoria nei confronti del personale,
effettuando sullo stesso un controllo in modo stabile e ininterrotto
attraverso condotte oppressive, moleste, finanche persecutorie. E
l'utilizzazione a turno di colleghi per i controlli giornalieri era
evidentemente indicativo della volonta' di creare dissapori.
Del pari,
secondo la Corte di appello, corrispondeva al vero che lo (OMISSIS)
tenesse comportamenti violenti e persecutori, essendo senza dubbio da
qualificare comportamento violento e persecutorio (quantomeno dal
punto di vista morale) il fatto di adibire a turni esterni di
servizio, anche notturni e prolungati ... un militare affetto da
grave invalidita' riconosciuta come dipendente da causa di servizio
... che lo costringeva ad utilizzare i servizi igienici con frequenza
di gran lunga superiore alla normalita'; sicche' quella posta in
essere era senza dubbio condotta violenta ... lesiva della dignita'
morale del lavoratore e persecutoria, perche' realizzata non una sola
volta ma in ben diciassette episodi, tutti ingiustificati perche' il
militare ... poteva essere sostituito.
Su questa
base, con riferimento alla diffamazione del maggiore (OMISSIS), la
sentenza impugnata ha ritenuto giustificate alcune delle espressioni
usate (esercitano con continuita' e sistematicita' un'azione
vessatoria, atteggiamento violento e persecutorio, per l'ingrato
compito di (OMISSIS)), assolvendo per esse l'imputato, ma non altre,
quali (OMISSIS), stato di terrore, angherie, ritenendole eccedenti la
continenza e attacchi non consentiti alla persona.
Cosi'
facendo e' tuttavia incorsa in un duplice errore.
In primo
luogo ha male interpretato la giurisprudenza di questa Corte che,
richiamandosi alla giurisprudenza costituzionale ed europea,
considera in ogni caso non consentito dal diritto di critica
reso legittimo dalla funzione pubblica esercitata dal soggetto
criticato e dall'interesse pubblico della notizia, l'attacco "alla
persona": da intendersi pero' quale offesa rivolta, senza
ragione, alla sfera privata, non coinvolta dall'ambito di pubblica
rilevanza della notizia, mediante l'utilizzo di non pertinenti
argumenta ad hominem (tra moltissime: Sez. 5, n. 3477 del 8/02/2000,
Rv. 215577; Sez. 5 n. 38448 del 26/10/2001, Rv. 219998; Sez. 5, sent.
n. 10135 del 12/03/2002, Rv. 221684; Sez. 5, n. 13264 del 2005; Sez.
5, n. 4938 del 28/10/2010, Rv. 249239).
Nel caso in
esame, invece, nessuno degli epiteti o delle frasi ritenute offensive
si rivolge alle persone offese in quanto uomini, e cioe' al loro
privato, tutte concernendo la funzione svolta e il criticato loro
modo d'intendere la disciplina militare e la potesta' di comando
(in senso analogo, v. Sez. 5, n. 29433 del 16/05/2007, Mancuso, Rv.
236839).
In secondo
luogo ha sostanzialmente ridotto la facolta' di critica alla
esposizione dei fatti e alla loro puntuale, esatta illustrazione e
definizione.
A differenza
della cronaca, del resoconto, della mera denunzia, la critica si
concretizza nella manifestazione di un'opinione (di un giudizio
valutativo). E' vero che essa presuppone in ogni caso un fatto che e'
assunto ad oggetto o a spunto del discorso critico, ma il giudizio
valutativo, in quanto tale, e' diverso dal fatto da cui trae spunto e
a differenza di questo non puo' pretendersi che sia "obiettivo"
e neppure, in linea astratta, "vero" o "falso".
La critica
postula, insomma, fatti che la giustifichino e cioe', normalmente, un
contenuto di veridicita' limitato alla oggettiva esistenza dei dati
assunti a base delle opinioni e delle valutazioni espresse
(Sez. 5, n. 13264 del 16/03/2005, non massimata; Sez. 5, n. 20474 del
14/02/2002, Rv. 221904; Sez. 5, n. 7499 del 14/02/2000, Rv. 216534),
ma non puo' pretendersi che si esaurisca in essi.
In altri
termini, come rimarca la giurisprudenza CEDU la liberta' di esprimere
giudizi critici, cioe' "giudizi di valore", trova il solo,
ma invalicabile, limite nella esistenza di un "sufficiente
riscontro fattuale" (Corte EdU, sent. del 27.10.2005 caso
Wirtshafts-Trend Zeitschriften-Verlags Gmbh c. Austria rie. n
58547/00, nonche' sent. del 29.11.2005, caso Rodrigues c. Portogallo,
ric. n 75088/01), ma al fine di valutare la giustificazione di una
dichiarazione contestata, e' sempre necessario distinguere tra
dichiarazioni di fatto e giudizi di valore, perche', se la
materialita' dei fatti puo' essere provata, l'esattezza dei secondi
non sempre si presta ad essere dimostrata (Corte EdU, sent. del
1.7.1997 caso Oberschlick c/Austria par. 33).
Nella zona
tra cio' che e' sicuramente "fatto", la sua
rappresentazione connotata da aspetti valutativi, la valutazione,
infine, spiccatamente critica, si colloca quindi della continenza,
che concerne un aspetto sostanziale e un profilo formale.
La continenza
sostanziale, o "materiale", attiene alla natura e alla
latitudine dei fatti riferiti e delle opinioni espresse, in relazione
all'interesse pubblico alla comunicazione o al diritto-dovere di
denunzia.
La continenza
sostanziale ha dunque riguardo alla quantita' e alla selezione
dell'informazione in funzione del tipo di resoconto e
dell'utilita'/bisogno sociale ad esso.
L'aspetto non
viene pero' in considerazione nel caso in esame, in cui neppure i
giudici del merito hanno mai dubitato, e non puo' in astratto
dubitarsi, che esisteva non solo un diritto, ma addirittura un
dovere militare, e civico, alla denunzia di comportamenti contrari ad
una amministrazione della disciplina militare in senso
compatibile con l'assetto democratico dell'apparato statuale e con i
principi costituzionali che regolano l'ordinamento delle Forze armate
(articolo 53 Cost).
La continenza
formale attiene invece al modo con cui il racconto sul fatto e' reso
o il giudizio critico esternato, e cioe' alla qualita' della
manifestazione. E per lo piu' riguarda, come nel caso in esame,
proprio il giudizio critico, poco spazi di "originalita'"
descrittiva consentendo di regola i fatti. Essa postula dunque una
forma espositiva proporzionata, "corretta" in quanto non
ingiustificatamente sovrabbondante al fine del concetto da
esprimere.
Questo comporta che le modalita' espressive non devono essere gratuitamente offensive, o, come detto prima, mere contumelie. Tuttavia coloriture e iperboli, toni aspri o polemici, linguaggio figurato o persino gergale, non possono considerarsi di per se' punibili quando siano proporzionati e funzionali all'opinione o alla protesta da esprimere.
La diversita' dei contesti nei quali si svolge la critica, cosi' come la differente responsabilita' e funzione, specie se pubblica, dei soggetti ai quali la critica e' rivolta, possono quindi giustificare attacchi di grande violenza se proporzionati ai valori in gioco che si ritengono compromessi (Sez. 5, n. 45163 del 2/10/2001, Rv. 221013; Sez. 5, n. 22031 del 24/04/2003, Rv. 224674; Sez. 5, n. 19334 del 5.3.2004, Rv. 227754). Sono, in definitiva, gli interessi in gioco che segnano la "misura" delle espressioni consentite.
D'altronde, come ricorda la giurisprudenza CEDU, il diritto di esprimere liberamente le proprie opinioni non concerne unicamente le idee favorevoli o inoffensive o indifferenti, alla cui manifestazione nessuno mai s'opporrebbe, ma e' al contrario principalmente rivolta a garantire la liberta' proprio delle opinioni che urtano, scuotono o inquietano.
Questo comporta che le modalita' espressive non devono essere gratuitamente offensive, o, come detto prima, mere contumelie. Tuttavia coloriture e iperboli, toni aspri o polemici, linguaggio figurato o persino gergale, non possono considerarsi di per se' punibili quando siano proporzionati e funzionali all'opinione o alla protesta da esprimere.
La diversita' dei contesti nei quali si svolge la critica, cosi' come la differente responsabilita' e funzione, specie se pubblica, dei soggetti ai quali la critica e' rivolta, possono quindi giustificare attacchi di grande violenza se proporzionati ai valori in gioco che si ritengono compromessi (Sez. 5, n. 45163 del 2/10/2001, Rv. 221013; Sez. 5, n. 22031 del 24/04/2003, Rv. 224674; Sez. 5, n. 19334 del 5.3.2004, Rv. 227754). Sono, in definitiva, gli interessi in gioco che segnano la "misura" delle espressioni consentite.
D'altronde, come ricorda la giurisprudenza CEDU, il diritto di esprimere liberamente le proprie opinioni non concerne unicamente le idee favorevoli o inoffensive o indifferenti, alla cui manifestazione nessuno mai s'opporrebbe, ma e' al contrario principalmente rivolta a garantire la liberta' proprio delle opinioni che urtano, scuotono o inquietano.
E cio' tanto
piu' ove dette opinioni veementi siano rivolte a soggetti che
detengono o rappresentano un potere pubblico.
Nel caso in
esame, pertanto, termini ed espressione quali "angherie",
"(OMISSIS)", "stato di terrore", usati in senso
non storico - letterale ma come figurato, evocative di gestioni
esasperate e odiosamente antidemocratiche del potere poliziesco,
costituiscono certamente esagerazioni, volte a scuotere, urtare e
inquietare i destinatari. Ma, accompagnate come sono
dall'illustrazione di adeguata base fattuale che consente di
intenderle nel loro giusto valore di espediente retorico, non possono
considerarsi estranee al diritto di critica.
Per tali
ragioni, con riferimento a tutti gli aspetti della diffamazione
contestata ai danni del maggiore (OMISSIS), la sentenza impugnata
deve essere annullata senza rinvio, perche' l'imputato ha
agito nell'ambito del diritto di denunzia e del diritto di
critica ed e' percio' scriminato ai sensi dell'articolo 51 c.p. e
dall’art. 21 Cost.
Per quanto
concerne la diffamazione ai danni del comandante (OMISSIS), la Corte
di appello si e' risolta invece a confermare la condanna del
ricorrente sul rilievo che non risultava provato che le condotte
trasbordanti le esigenze di disciplina e di servizio fossero state
anche da lui (materialmente) poste in essere e che, seppure i
militari ascoltati (in parte motiva si fa riferimento ai testi
(OMISSIS) e (OMISSIS), ma nella parte in fatto si da atto che gli
altri militari avevano reso dichiarazioni in tutto coincidenti)
avevano riferito che dei comportamenti dello (OMISSIS) era stato
messo a conoscenza anche il comandante provinciale (OMISSIS), cio'
non bastava a dimostrare che quel tipo di condotte fossero riferibili
anche al (OMISSIS) o che il (OMISSIS) le avesse, anche solo in parte,
giustificate.
Cosi'
argomentando, tuttavia, effettivamente la sentenza impugnata omette
di fare riferimento alcuno agli ordini di servizio che, pure,
riferisce versati in atti e che, relativi all'assegnazione del
(OMISSIS) a servizi esterni e firmati da (OMISSIS), sono allegati in
copia al ricorso, ma che questa Corte non puo' direttamente
apprezzare quantomeno perche' la mera controfirma ad opera del
comandante del nucleo provinciale andrebbe valutata assieme agli
altri elementi acquisiti per trarne la sua sicura consapevolezza in
ordine alla situazione personale del comandato e all'illegittimita',
percio', dell'ordine direttamente impartito.
Dalla
motivazione della sentenza impugnata emerge pero', in relazione alla
posizione del (OMISSIS) e ai fini della valutazione della
diffamazione nei suoi confronti, altra piu' decisiva omissione. La
Corte di appello, difatti, ha escluso che in sede giudiziale fosse
stata raggiunta la certezza della verita' dei fatti addebitati nello
scritto dell'imputato al (OMISSIS), ricordando persino che alcune
domande rivolte a tal fine al teste non erano state ammesse in primo
grado. Ma non si e' in alcun modo posta il problema della
configurabilita' putativa, alla luce di quanto emerso, dell'esimente.
Dalla
mancanza di certezza in ordine alla falsita' (non verita') della
notizia (anche ove dovesse risolversi nel mero dubbio del
giudicante), va tenuto infatti distinto il problema della acquisita
opposta certezza dell'agente: anche ove fosse appurato che la notizia
non puo' ritenersi vera (e' falsa), se risulta pero' che l'agente
l'ha diffusa nella ragionevole e giustificabile convinzione che lo
fosse, il fatto (anche a stare alla radicata elaborazione
giurisprudenziale secondo cui, per quanto promani dal diritto alla
liberta' di manifestazione del "proprio pensiero", e'
connaturale al diritto di cronaca evocabile per il tramite
dell'articolo 51 c.p. la necessita' di "obiettiva"
verita' della notizia) non e' punibile, perche' nulla consente di
escludere che la regola dettata dall'articolo 59 c.p., comma 4 trovi
interamente applicazione con riferimento all'esercizio del diritto in
esame (tra molte, Sez. 5, n. 15643 del 11/03/2005, Scalfari, Rv.
232134).
Nel caso in
esame non puo' dunque non riconoscersi immediata evidenza e rilevanza
decisiva: da un lato, alla obiettiva esistenza di ordini di servizio
a firma (OMISSIS) e alla circostanza che i testi hanno confermato che
il (OMISSIS) era stato informato del comportamento del maggiore
(OMISSIS), anche nei confronti del (OMISSIS); dall'altro, al fatto
che il (OMISSIS) era sovraordinato allo (OMISSIS) e che la regola che
non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico, e la
possibilita' concreta, di impedire equivale a cagionarlo, vale a
maggior ragione per i preposti a funzioni di comando e garanzia.
Deve in
conclusione convenirsi che il (OMISSIS), come ogni agente di polizia
giudiziaria e ogni militare aduso a tale regola, ha attribuito
al comandante provinciale una corresponsabilita' della quale,
perlomeno putativamente, era ragionevolmente e giustificabilmente
convinto.
Annulla
quindi senza rinvio la sentenza impugnata perche' trattasi di fatto
non punibile ai sensi dell'articolo 51 c.p. in
relazione alla diffamazione nei confronti dello (OMISSIS) e perche'
il fatto non costituisce reato in relazione alla
diffamazione nei confronti del (OMISSIS).
Avv.
Francesco Pandolfi
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