Spesso ci si
continua a chiedere se l’inerzia della pubblica amministrazione innanzi ad una
richiesta formale , di accesso agli atti e/o quant’altro, possa integrare il
reato penale di cui all’art. 328 del c.p.
La
legge n. 241/90, per altro modificata dalla L. n.69/2009, ha rafforzato
l’obbligo posto a capo delle pubbliche amministrazioni, di concludere i
procedimenti amministrativi (accesso agli atti) entro il termine di 30 giorni,
o, comunque mai oltre i 180 giorni, fissato dai regolamenti dei singoli enti.
Viene determinata altresì una sanzione risarcitoria degli eventuali danni
procurati in caso di mancata conclusione entro i termini previsti. La
violazione di questo precetto determina tanto la condanna a provvedere, che
l’obbligo di risarcimento del danno, inoltre, può integrare la fattispecie del
reato della violazione dei doveri d’ufficio di cui all’art. 328 del c.p.
L’art.
328 c.p. prevede il reato di omissione di atti d’ufficio per il pubblico
ufficiale che entro 30 giorni dalla richiesta, o in un tempo più lungo come
sopra citato, non compie l’atto e non risponde spiegando le ragioni del
ritardo.
Il
reato si configura anche a fronte di una richiesta di accesso da parte del
privato cittadino, infatti, il pubblico ufficiale ha il dovere di rispondere
entro 30 giorni o rilasciando l’atto richiesto ovvero negandolo motivatamente;
nella ipotesi di mancata risposta espressa nel termine previsto, ai sensi del
Co. 4 dell’art. 25 della L. 241/90, la richiesta “si intende respinta”,
stimolando così il meccanismo del silenzio rigetto. In siffatta ipotesi si
ipotizza invece, che a carico del funzionario inadempiente si possa ravvisare
il reato di cui all’art. 328 c.p.
Parte
della giurisprudenza ha ritenuto inapplicabile il reato di cui all’art.328 del
c.p. in materia di accesso, poiché maturerebbe comunque il meccanismo del
silenzio rigetto, un provvedimento negativo, comunque emesso dalla p.a., onde
scatterebbe la causa di giustificazione codificata dall’art.51 c.p. costituendo
un diritto per la p.a., il potere di sostituire un provvedimento tacito a
quello espresso.
E’
stato tuttavia giustamente replicato che il richiamo alla scriminante di cui
all’art.51 c.p. appare fuori luogo, giacché il meccanismo del silenzio rigetto
costituisce soltanto una fictio
iuris e non una
manifestazione di un diritto attribuito dalla p.a. (che anzi ha pur sempre il
dovere di concludere il procedimento mediante provvedimento espresso ex art. 2,
comma 2, legge 241/90).
La
giurisprudenza prevalente, inoltre, non ha ritenuto di condividere nemmeno
l’impostazione dottrinale secondo cui la consumazione del reato presupporrebbe
che, a seguito della formazione del silenzio rigetto per effetto del decorso
dei 30 giorni dall’istanza, l’interessato invii un ulteriore atto di diffida.
La tesi, che sarebbe plausibile ove il termine per la conclusione del
procedimento sia superiore a quello penale di 30 giorni, non appare esatta nel
caso in cui il termine procedimentale e quello penale coincidano: in tal caso
un atto sollecitatorio, volto a stigmatizzare un silenzio già intrinsecamente
illecito, sarebbe sicuramente inutile. Per quanto esposto, il rapporto tra
l’art. 328 c.p. e la legge 241/90 è facilmente rinvenibile. Si può affermare
che la legge n. 241 fissa in modo circostanziato il precetto al quale la p.a. e
i suoi dipendenti devono attenersi in materia di accesso agli atti, mentre
l’art. 328 c.p. co. 2, prevede le punibilità per la violazione di tale precetto.
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